Pubblicazione dell’Associazione per l’Interscambio Culturale Italia Brasile Anita e Giuseppe Garibaldi

Mille Italie, tutte in piazza

por andrea em domingo, 26 de dezembro de 2010 às 12:10 Mille Italie, tutte in piazza

Sembrava una forma di protesta del passato, superata dalla tivù e dal web. Invece la manifestazione è tornata, e non solo tra gli studenti. Ma anche tra musicisti, pastori, terremotati, ambasciatori e così via. Qualcuno sa come mai?

L’odissea è nelle piazze. C’è un popolo di arrabbiati che cresce ogni giorno. Studenti e insegnanti. Poliziotti e detenuti. Contadini e operai. Pastori e comitati anti-Tav. Cantanti della Scala e terremotati dell’Aquila. Infermieri e pazienti. Padri che hanno perso il lavoro e figli che non lo troveranno mai. Al telegiornale vanno in onda gli scontri fra studenti e polizia. Quelli nel cuore di Roma tengono banco. Tornano i fumogeni, le manganellate, le immagini degli arrestati nel giorno della fiducia a Berlusconi. Ma da mesi c’è molto altro nell’Italia della nuova rivolta di piazza, invasa da una lunga e inesorabile catena di proteste. Il disagio è salito sui tetti, è sceso sotto terra, ha invaso le strade, le fabbriche, le aule, i teatri, le sale operatorie, le carceri e i centri di accoglienza per gli immigrati. La rabbia non ha capi né politici di riferimento. E presidiare senza valvole di sfogo è sempre più difficile.

Quest’anno, nelle sole strade della capitale, hanno sfilato più di mille cortei. Significa milioni di italiani a cui se ne aggiungono altrettanti in quasi tutte le regioni. È la stessa polizia ad ammettere che da decenni non si assisteva a una mobilitazione così massiccia. Con il rischio che vada ancora peggio nel 2011, quando ai 540 mila italiani rimasti senza lavoro negli ultimi tre anni secondo Confindustria se ne aggiungeranno altre migliaia. E quando il tasso di disoccupazione toccherà il picco del 9 per cento, la cassa integrazione sarà agli sgoccioli, i tagli a scuola, enti locali e sanità cresceranno. Fino a disegnare una mappa del dissenso che fa temere il caos.

Protestano tutti, ormai da mesi. E in quelle piazze c’è ben altro che le teste calde. Quelle che il capo dei senatori di Pdl, Maurizio Gasparri, definisce “potenziali assassini” scatenando le critiche dello stesso governo Berlusconi. Certo i provocatori s’infilano. Di destra e di sinistra. Ma per capire quanta Italia normale ormai scenda in strada basta segnarsi la data del 26 luglio. Per la prima volta al mondo, hanno incrociato le braccia addirittura gli strapagati ambasciatori della Farnesina, i capi della più salomonica delle diplomazie europee.

Gente che con lo Stato non va mai allo scontro, ma che stavolta non ha resistito all’ondata di tagli che ha investito il ministero degli Esteri. Con la feluca al posto dell’elmetto, hanno contestato la Finanziaria. Proprio come gli studenti della Sapienza e gli operai della Fiat. Poco dopo sono scesi in strada i sindaci di tutti i partiti per restituire le fasce tricolore. A ruota i magistrati, che hanno disertato l’apertura dell’anno giudiziario e i prefetti che si sono dichiarati “in agitazione”. E pochi giorni fa è stata la volta delle forze dell’ordine. Un centinaio di poliziotti, guardie carcerarie e vigili del fuoco si sono presentati ad Arcore con la maschera di Silvio Berlusconi addosso. In corteo per contestare i tagli alla sicurezza. Non è la prima volta che la polizia si mette dall’altra parte della barricata.

Già alla mostra del cinema di Venezia, alcuni agenti avevano occupato il red carpet dove sfilavano le star di Hollywood. Infuriati come la giovane che tirò il fumogeno a Bonanni alla manifestazione di Torino, o come i pastori della Barbagia in marcia sugli aeroporti della Costa Smeralda per denunciare il prezzo del latte crollato sotto i 60 centesimi al litro. E ancora gli operai licenziati e autoreclusi nel carcere dell’Asinara, i tifosi muti sugli spalti degli stadi, i cassintegrati al gelo sui tetti delle fabbriche in crisi. E ancora i medici, che hanno fatto saltare 40 mila interventi chirurgici in un solo giorno e l’infermiera di Napoli che s’è fatta cavare il sangue per chiedere lo stipendio. E poi è morta.

È il “malessere” italiano che Giorgio Napolitano ha chiesto alla politica di non ignorare. È la storia di una protesta ormai infinita che si gonfia e si insinua dovunque come un blob. Ogni giorno s’aggiunge un sit in, un corteo, uno sciopero, un’occupazione. Ogni giorno c’è una città in più che allunga la lista degli scontenti. Una valle che s’unisce alle altre contro la Tav. Negli ultimi due mesi sono state almeno 300 le manifestazioni organizzate solo nel mondo della scuola. Roma, Milano, Napoli, Trieste, Firenze, Bari.  C’erano i professori al fianco degli studenti. C’erano i maestri a chiedere la promozione degli alunni e bloccare gli scrutini. A Benevento hanno messo in scena il funerale dell’istruzione: un’enorme bara trascinata in piazza Risorgimento, trasformata per l’occasione in un cimitero. Intanto i Cobas di Palermo chiedevano lo stop della riforma Gelmini, mentre a Cagliari sono usciti tutti insieme dalle aule, mano nella mano, contro “la distruzione della scuola”. Dopo che il governo aveva cancellato nella sola Sardegna quasi 6 mila posti fra docenti e bidelli. A Torino un enorme fantoccio raffigurava un impiccato. Ha sfilato davanti ai cortei e portava un cartello con scritto: “A forza di tagli finirete per tagliarci le gambe”.

Una protesta dove la violenza non si vedeva da decenni. Ma dove rischia di esplodere in ogni momento. Perché la misura è colma anche se dietro al megafono non ci sono ragazzi nascosti da un passamontagna, ma ricercatori con laurea alla Normale e la stessa media di Enrico Fermi. Ragazzi che negli Stati Uniti guadagnano più dei nostri rettori, ma in Italia non trovano posto nemmeno nei call center.

È un popolo che parla sempre più la stessa lingua. Gli slogan sono simili. Addirittura le mobilitazioni si somigliano. Da Torino, a Perugia, fino a Roma i precari degli atenei hanno scalato i tetti dei monumenti simbolo della civiltà italiana, a cavalcioni sulla Mole Antonelliana o in bilico sui cornicioni del Duomo di Milano. Proprio come gli operai in cassa integrazione, che per primi avevano scelto il cielo e conquistato la ciminiera più alta del Petrolchimico, il carroponte dell’Innse, il tetto della Yamaha di Lesmo o dei capannoni della Fiat a Termini Imerese. La musica è la stessa dappertutto. Solo che dal palcoscenico s’è spostata in strada, oscurando dopo due secoli addirittura il rito italico del melodramma. Teatri, musicisti, cantanti in sciopero hanno suonato sui marciapiedi di Napoli e Milano, con le grancasse di legno pregiato dei contrabbassi al posto dei megafoni dei metalmeccanici. Una serrata generale che ha numeri spaventosi: 250 mila lavoratori dalla Fenice al teatro Regio di Torino.

A Roma è saltato il “Don Chisciotte”, a Bologna la “Carmen”. Ma gli striscioni e gli slogan erano anche stavolta identici: “Dekreto truffa, Berlusconi vergogna”. Gli stessi dei terremotati dell’Aquila, il popolo delle carriole che avanzava verso Palazzo Grazioli. Sulle magliette era raccontata la rabbia degli abruzzesi: “L’Aquila non può crollare: è una città che vola”. Eppure perdere i propri cari, gli amici, la casa, il lavoro non è bastato a far autorizzare quel corteo di disperati. A piazza Venezia sono stati fermati da un cordone di polizia. Vietato infastidire il premier al lavoro a via del Plebiscito. Così è bastato poco. La scintilla è stato qualche spintone e un paio di bottiglie che volavano. Con il bilancio assurdo di due ragazzi feriti.

Voci ormai esauste. Come quelle che non smettono di gridare “no” al ponte di Messina o agli impianti eolici nella loro campagna. Soltanto quest’anno sono state 273 le manifestazioni, praticamente una al giorno. Forse più silenziose di quelle che riempiono le notti di Terzigno, ma pur sempre barricate umane. A Napoli da mesi si sfoga lo sdegno di chi è costretto a vivere sommerso dall’immondizia, nella puzza e fra i topi. E anche laggiù, proprio come a Roma, la protesta è sfuggita di mano. Ci sono state le risse, i sassi, le auto in fiamme, i feriti. I sindaci di Boscoreale e San Sebastiano hanno puntato il dito contro i “delinquenti” che s’erano infilati nel corteo. In mezzo a quel pezzo di Campania che non si piega di fronte agli sprechi, all’immobilismo della politica, alla Camorra che impera. Fuori e dentro le istituzioni.

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