Pubblicazione dell’Associazione per l’Interscambio Culturale Italia Brasile Anita e Giuseppe Garibaldi

L’orgoglio panarabo del Colonnello ossessionato dall’Italia

por andrea em domingo, 20 de março de 2011 às 12:16

 

Il dominio coloniale ha segnato tutta la sua storia politica Aveva un sogno: riscattare i Paesi della  Mezzaluna e l’Africa.

Una cicatrice sul braccio d’un bambino che giocava libero nel deserto può diventare anche il segno d’un destino predeterminato. Ci sono infatti memorie che talvolta decidono una vita, anche quando soltanto di vita d’uomini qualunque si tratta. Se poi quella vita comanda il destino non d’un uomo soltanto ma il destino d’un intero popolo, allora la memoria lontana d’un bimbo può anche diventare un segmento incisivo sul tempo della Storia. Aveva appena 6 anni, Muammar Gheddafi, quando quella mina esplose. Era il 1948, e giocava con i suoi cuginetti in uno spiazzo polveroso della piana arida di Sirte. Trovarono invece una vecchia mina ch’era stata sepolta chissà quando dai soldati del Regio esercito coloniale d’Italia. I due cuginetti morirono, Muammar si ritrovò soltanto con quello strappo violento lungo tutto il braccio. Non lo dimenticò mai.

La sua storia di capo-popolo, il risentimento affondato nel petto, muovono anche da quel mattino lontano, quando l’odio per una ingiustizia subita senza colpa interverrà poi, nel tempo, in scelte politiche che appariranno dettate da emozioni che la razionalità d’una leadership raramente tiene in conto. E con l’Italia sempre – o quasi sempre – al centro d’un universo dove la geografia di due Paesi che stanno di fronte ha sicuramente un ruolo determinante ma dove a contare è anche il desiderio d’un risarcimento che metta assieme la memoria ferita d’un bambino e il riscatto d’una dominazione coloniale che umiliava il popolo. Il primo atto, quello simbolicamente fondante, è il decreto del 21 luglio del ’70, con cui il nuovo Consiglio della Rivoluzione – di cui un giovane sconosciuto capitano nato a Sirte ha preso il comando, esiliando con disprezzo quel re Idris d’una tribù dell’Oriente cireanico – ordina il sequestro di tutti i beni dei 20 mila cittadini italiani che ancora lavorano e vivono nella nuova Libia militarizzata, e ordina poi la loro espulsione immediata, da chiudersi in pochissimi giorni, un fagotto di tela o un cartone dove stringere quello che si può salvare nell’affanno d’una vita spezzata e la nave in porto che già aspetta.

Il 7 ottobre sarà poi per sempre il «giorno della vendetta». Ma l’Italia riaprirà comunque la sua ambasciata, e cercherà un percorso di riappacificazione, anche perché la Libia è intanto diventata una potenza petrolifera, e la politica energetica dell’Italia non può ignorare l’interesse che «la quarta sponda» offre agli investimenti dell’Eni, dopo che il giacimento di Zeltén ha fatto scoprire quale insensatezza fosse l’aver pensato a quella sponda come soltanto «uno scatolone di sabbia». Quanto più la politica energetica diventerà poi uno degli elementi essenziali delle strategie internazionali, dopo lo Yom Kippur e la rivoluzione araba del petrolio, tanto più il Colonnello tenterà d’imporre la sua visione del mondo alle vecchie potenze coloniali. E la sua visione, montata sul panarabismo di Nasser, sogna un riscatto dove i Paesi della Mezzaluna – e la stessa Africa – saranno chiamati a determinare i nuovi destini del mondo. Sono gli anni del terrorismo come strategia di una rivoluzione mondiale, e Gheddafi ne usa con spregiudicatezza ogni azione, finanziando movimenti e gruppi senza limite di frontiere, dall’Ira irlandese al Settembre Nero palestinese. L’Italia resterà nell’ombra di questa fanatica visione d’un nuovo tempo modellato dalla potenza dei petrodollari, e dovrà comunque barcamenarsi sotto le pressioni del Colonnello che minaccia sempre ritorsioni per un passato coloniale mai sanato, servendosi anche della cattura di qualche peschereccio di Mazara del Vallo da usare come leva di ricatto per aver mano libera nell’uccisione dei molti leader dell’opposizione libica che hanno trovato rifugio in Italia. Ma quando Reagan, il 15 aprile dell’86, dopo l’attentato a una discoteca di Berlino affollata di marines, decide ch’è giunto il tempo d’una lezione e bombarda Bengasi e Tripoli e la stessa caserma-residenza di Gheddafi, sarà soltanto una misteriosa telefonata (molti pensano di Craxi, presidente del Consiglio italiano) a mettere il Colonnello sull’avviso e a salvargli la vita. Riprende così il tempo dell’alternanza tra risentimenti d’antiche memorie e sviluppo di relazioni con Roma di buon vicinato, che troverà poi un primo radicamento di pacificazione nell’invito che Romano Prodi, presidente della Commissione dell’Unione Europa, rivolgerà a Gheddafi per una visita ufficiale a Bruxelles. Il Colonnello – che in questa alternanza aveva trovato il modo di scaricare verso Lampedusa due missili Scud B per ritorsione – ha intanto abbandonato la politica del sostegno al terrorismo, ha riconosciuto di fatto la responsabilità negli attentati al volo 103 della PanAm nel dicembre dell’88, e poi al Dc-10 dell’Uta nel settembre dell’89, e alla fine riceverà a Tripoli la visita ufficiale del capo del governo italiano, Massimo D’Alema. Non sono ancora i tempi che seguiranno, degli abbracci con Berlusconi a Roma e a Tripoli e di quel bacio della mano che segnerà la degradante umiliazione d’una politica d’affari senza dignità, ma certo si va spegnendo il bruciore di quella lunga cicatrice nel braccio destro d’un bimbo che giocava nel deserto. E verranno, alla fine, anche le passeggiate trionfali nelle piazze stranite di Roma.

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