La probabile vittoria alle elezioni barattata col governo tecnico
por andrea em sexta-feira, 11 de novembro de 2011 às 9:15
Dilemma Bersani: appoggiare Monti col rischio di sparire.
Mettetevi nei panni di chi era lì, deliziato da questo e quel sondaggio, tutti da mesi concordi nel proclamarlo vincitore. Mettetevi nei suoi panni, cioè negli abiti di chi era pronto ad incassare – di fronte a elezioni a gennaio – l’investitura a candidato-premier senza nemmeno il rischioso fastidio della prova delle primarie. Mettetevi nei panni di Pier Luigi Bersani, insomma, così da capire come il piombare in campo di Mario Monti poteva somigliare – per lui ad una vera e propria sciagura. «Invece non un tentennamento – assicura Rosi Bindi, la voce intermittente per qualche problema col telefono -. Non un’oscillazione. E se devo dire chi si è speso, anzi chi si sta spendendo di più per convincere i dubbiosi – perché qualche dubbioso c’è l’abbiamo anche noi – nemmeno io tentenno: Bersani».
Si potevano avere dei dubbi, in questo giovedì di tensione e di passione: sarebbero stati legittimi. Si poteva pensare a qualche giochino, anzi doppiogiochino: in politica se ne vedono ogni giorno, e se ne vedranno ancora. E si poteva, infine, immaginare l’umano prevalere dell’interesse personale e di partito: la storia è piena di scelte dettate da paura o da egoismo. Al contrario, da ieri sera una cosa è diventata irreversibilmente chiara: se dall’inizio della prossima settimana Monti siederà a Palazzo Chigi, molto lo si dovrà – certo – a Giorgio Napolitano, ma il resto del merito sarà suo, dell’uomo che «mica siamo qua a smacchiare i leopardi»…
Intendiamoci: se si provano a enumerare i vantaggi e gli svantaggi personali e di partito che la scelta comporta, verrebbe da dire che la rotta individuata dal leader del Pd ricorda da vicino un tentativo di suicidio. I democrats, infatti, barattano un futuro prossimo certo (la pronosticata vittoria alle elezioni anticipate) con un domani del tutto incerto; Bersani rende di nuovo contendibile con le primarie la postazione di candidato premier; il Pd si espone agli attacchi che gli arriverannoda sinistra, a cura di chi resterà fuori dal governo (Di Pietro e Vendola, al momento); «e c’è un rischio per noi forse ancor più serio – aggiunge Rosi Bindi -. E cioè che all’ombra di un lungo governo tecnico e di fronte a un Pdl che cambia pelle, il Terzo Polo slitti di nuovo dall’altra parte del campo, e la frittata è fatta. È un pericolo vero: ma noi siamo gente seria, e vengono prima i pericoli ai quali Berlusconi ha esposto il Paese…».
Sarà pure così, anzi è certamente così: ciò non toglie che, dietro l’apparente sicurezza, tutto il Pd ha fibrillato a lungo intorno alla scelta da fare. Riunioni al largo del Nazareno, sede del partito; faccia a faccia più o meno riservati nei corridoi di Camera e Senato; telefoni roventi per tentare di capire se il governo nascerà davvero e se (domanda che non guasta mai…) vi entreranno uomini del Pd; interrogativi irrisolti sull’accelerazione e la direzione imposte da Giorgio Napolitano all’andamento della crisi. Se il partito ha tenuto la barra dritta e ha messo tutto il proprio peso (politico e parlamentare) al servizio di una soluzione, è senz’altro per la posizione assunta sin da subito da Bersani. Non possiamo rischiare la bancarotta – è stato il ragionamento – per poi magari ereditare il classico cumulo di macerie: dobbiamo insistere per un governo che tiri fuori il Paese dal pantano in cui è finito. Non ad ogni condizione, naturalmente.
E le condizioni del Pd – almeno quelle fondamentali – sono due e sono chiare. La prima, un governo che marchi una grande discontinuità rispetto a quello uscente: quindi Gianni Letta, Nitto Palma, Franco Frattini e compagnia bella possono metterci una pietra sopra e prenotare un viaggio oppure una vacanza. La seconda, la parola chiave dei provvedimenti che andranno presi per fronteggiare la crisi deve essere «equità»: Bersani non dice patrimoniale, tassazione delle rendite finanziarie, guerra senza quartiere all’evasione fiscale, ma è chiaro che senza assicurazioni in questo senso, la disponibilità del Pd potrebbe traballare.
Va bene assumere come riferimento la lettera della Bce: ma una cosa è farne un riferimento e altra è trasformarla nel nuovo Vangelo… Tutto bene, dunque, in casa democratica? Dirlo sarebbe una bugia: ma il dado è tratto e ora non si può arretrare. «Il passaggio è storico – ammette Nicola Latorre -, si sta certificando la fine della Seconda Repubblica: una fine sancita dal governo di Berlusconi e determinata non dai giudici, come lui temeva, ma dal fallimento della sua politica». Festeggia (assai in privato…) anche Matteo Renzi, croce e delizia (più la prima che la seconda) del segretario del Pd. «Quel che sta accadendo – confessa – è il trionfo dell’idea di rottamazione. E che a mettere il timbro sul fallimento di un’intera classe politica sia un signore di quasi settant’anni, può sembrare paradossale ma ci sta, ci sta…».