Pubblicazione dell’Associazione per l’Interscambio Culturale Italia Brasile Anita e Giuseppe Garibaldi

Il nuovo Pdl di Berlusconi

por andrea em sábado, 31 de julho de 2010 às 14:25

 

Il ruolo di La Russa e Gasparri negli equilibri che cambiano

Parola d’ordine: nulla sarà più come prima. All’indomani della rottura tra Berlusconi e Fini, il necrologio del Pdl passa di bocca in bocca. C’è una corsa frenetica a mettere al sicuro i caposaldi del potere locale e del sottogoverno, dalle regioni alle città, dai governatori ai sindaci, agli enti, alla Rai, il termometro più sensibile di ogni spostamento politico. Ma nel fortino berlusconiano, dove l’altra sera la ghigliottina è calata in poco meno d’un’ora sul collo del cofondatore, gli umori non sono affatto rassegnati. E l’idea che la cacciata di Fini debba corrispondere necessariamente a una messa in liquidazione del partito non è per niente data per scontata. Il terremoto di giovedì sera ha ridisegnato completamente gli equilibri già incerti alla corte del premier. A prima vista, è avvenuto un capovolgimento, con la prima fila spinta indietro e una nuova schiera, una specie di falange, che si stringe attorno al leader. L’espulsione di Fini ha colpito in pieno tutto il mondo trasversale romano, il partito della mediazione a ogni costo, che aveva un asse forte in Gianni Letta e nello stesso presidente della Camera, e continuato a opporsi fino all’ultimo agli strappi voluti dal premier. Il sodalizio s’è sciolto la scorsa settimana, quando Letta ha avvertito Fini che Berlusconi stavolta non sarebbe tornato indietro, e gli ha chiesto, per il bene di tutti, di invertire la marcia finché era in tempo. Come si sa il segnale, molto più tiepido di quel che si aspettava, è arrivato solo alla vigilia, con l’intervista di Fini al Foglio giudicata del tutto insufficiente dal suo interlocutore.

Così, inaspettatamente, l’estremo tentativo di evitare la rottura ha visto muoversi in parallelo due personaggi della prima ora berlusconiana come Letta e Giuliano Ferrara, che in passato, quando erano insieme al governo, si erano spesso trovati distanti, ma in quest’occasione, temendo il baratro verso cui stava andando il centrodestra, invano si sono mossi nella stessa direzione. Sul tavolo del giornalista sono rimasti gli appunti, sapientemente rielaborati per tradurli in un linguaggio più vicino a quello del Cavaliere, dell’intervista. E nella mente del sottosegretario le tante telefonate criptiche, spesso seguite da passeggiate guardinghe da Palazzo Chigi a Montecitorio, per parlare faccia a faccia con il presidente della Camera. Tutto inutile: eppure, c’è stato un tempo lunghissimo in cui Letta e Fini sedevano uno di fronte all’altro, alla destra e alla sinistra di Maria Angiolillo, nel suo famoso salotto che faceva da camera di compensazione dei momenti più drammatici, nei sedici anni di contrastatissima alleanza tra l’uomo di Arcore e l’ex leader di An. Di quell’insieme, di quel metodo erede dell’andreottismo e della pratica dell’eterno sminuzzamento di qualsiasi asperità, resta ben poco dopo la rottura. Già l’uscita di Casini dalla coalizione aveva fatto venir meno un interlocutore indispensabile delle continue mediazioni. Con Fini fuori, ormai, non c’è più nulla o quasi da mediare. Non a caso la corsa precipitosa verso la separazione, giovedì, ha travolto anche le ultime liturgie istituzionali, le cortesie informali tra Palazzi repubblicani di cui alla presidenza del Consiglio Letta è il custode: il Quirinale ha appreso quel che stava succedendo dalle agenzie e dai giornali: la crisi, tutta partitocratica ed extraparlamentare, s’è aperta alle spalle del Capo dello Stato. E a spingere per una reazione così dura a quella che i finiani a volte incoscienti, più che lo stesso Fini, da mesi definivano «una guerriglia» contro lo stato maggiore del Pdl, non è stato il solo Berlusconi. Vicino a lui, nell’ora della decisione, s’è raccolto il nuovo gruppo di comando del partito, che comprende i capigruppo Cicchitto (che alla Camera s’è trovato più spesso a fronteggiare Fini) e Gasparri, il vice capogruppo al Senato Quagliariello, i coordinatori Bondi, Verdini e La Russa, e soprattutto gli ex colonnelli finiani approdati al governo, che già da tempo avevano fatto la loro scelta a fianco del premier. C’è perfino chi dice che la sorprendente svolta del 2008, quando Fini d’improvviso – dopo aver definito solo pochi mesi prima «comiche finali» il battesimo del nuovo partito sul predellino di Piazza San Babila -, ruppe l’asse con Casini ch’era rimasto fuori e decise di confluire con il Cavaliere, sia stata determinata dalla conversione berlusconiana dei suoi colonnelli che l’aveva preceduto. Fatto sta che nel nuovo vertice sono praticamente sparite le distinzioni, le evidenti radici diverse, degli uomini nati nel partito-azienda Forza Italia rispetto agli eterni giovanotti del Fuan, l’organizzazione giovanile del Msi, e del Secolo d’Italia, che si portavano strette nel cuore le loro origini neofasciste, le loro inguaribili nostalgie, i metodi spicci di chi non ha avuto mai remore a usare le mani. E quando è servito, com’è accaduto a La Russa, ha dimostrato ancora di saperci fare. Per loro, man mano che tra i due cofondatori la temperatura saliva, è stata più che altro questione di sopravvivenza. E quando Gianfranco, in uno degli ultimi incontri prima della famosa direzione a pesci in faccia del 22 aprile, andò a dire a Silvio che tra le condizioni per ritrovare l’accordo c’era l’azzeramento degli ex-An che non lo rappresentavano più nel governo e nel partito, i colonnelli, che se l’aspettavano, si erano già spostati accanto ai fedelissimi e agli ultrà di Berlusconi. In molti casi ne imitavano già gli atteggiamenti, le abitudini, il gusto per le barzellette, e le cautele di quelli che sanno da sempre che è a lui che tocca l’ultima parola. Al punto che da questa nuova forma di cameratismo è uscita quasi una nuova identità collettiva, che in qualche modo ricorda i tempi del «Caf», l’alleanza strategica nata dalle iniziali di Craxi, Andreotti e Forlani. E quel tipo di personale politico caratterizzato da intercambiabilità, indifferenza ed empirismo senza principi, piegati al mantenimento del potere, che visse una breve fortuna e accompagnò la Prima Repubblica verso la fine. Nel blitz che ha capovolto gli equilibri interni del Pdl, berlusconiani di pura fede silviesca ed ex colonnelli si sono mossi d’intesa, come squadre speciali, ventre a terra, occupando velocemente lo spazio lasciato libero dai mediatori inascoltati, e riuscendo nello stesso tempo a spingere ai margini la ruspante corrente delle tre ministre, che pure aveva guadagnato molte posizioni negli ultimi tempi. E premeva su Berlusconi per una svolta e un rilancio del Pdl fondati sull’azzeramento dei coordinatori e un ritorno alle origini legato a una severa campagna di rinnovamento interno.

La rottura di giovedì ha travolto anche questo disegno, che puntava a tenere Fini dentro il partito strategicamente e in nome di alcune contiguità personali e alleanze locali, come quelle dei finiani siciliani, Granata in testa, con la ministra Prestigiacomo e il sottosegretario dissidente Gianfranco Miccichè, a sostegno del governatore Lombardo e dell’accordo trasversale con il Pd alla Regione Sicilia. Equilibrismi, giochi pericolosi, manovre da sventare, guardati con l’occhio della nuova dottrina che non ammette dissensi o eccezioni alla linea. Oppure, dato che il gruppo di eretici messi all’angolo non ha alcuna voglia di arrendersi, carte di riserva che potrebbero tornare utili e riprendere forza in caso di elezioni anticipate o del ritorno a governi d’emergenza. Al momento, tuttavia, non c’è da farsi molte illusioni. Il Popolo della libertà com’eravamo abituati a conoscerlo sarà anche morto, abbattuto in mezza giornata dal divorzio dei due cofondatori, ma intorno al premier il partito berlusconiano è rinato e avanza con il coltello tra i denti. Questa è alla fine la metamorfosi uscita dalle rovine del Pdl: da partito unico del centrodestra a partito esclusivo del presidente.

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