I controllori della sicurezza che non controllano niente
por andrea em domingo, 16 de janeiro de 2011 às 18:53
A giudicare da ciò che è successo in questi giorni verrebbe da dire che di «moderazione» si può anche morire. Nelle rappresentazioni d’uso corrente la Tunisia è il paese moderato per eccellenza fra un’Algeria radicale e una Libia volatile a causa di un leader poco ortodosso. Il Maghreb finisce lì. Niente storia. Nessuna capacità di comprendere e valutare la complessità delle dinamiche che scuotono società alle prese con una trasformazione in termini d’età e di occupazione difficile da governare e persino da prevedere stante la dipendenza da fattori che chiamano in gioco agenti esterni.
In Italia quasi tutti credevano che una volta assicurata alla strategia italiana ed europea di contrasto dell’emigrazione clandestina la collaborazione di Ben Ali – il poliziotto diventato ministro e presidente, prima all’ombra di Bourguiba e poi deponendo in forme nemmeno troppo violente il “combattente supremo” vecchio e malato – i problemi della Tunisia fossero sotto controllo. Controllo di chi? Certo non del suo governo, come si è visto alla fine, o di una politica che è stata volutamente svuotata di tutte le sue risorse per non correre rischi. Quante volte si sente ripetere anche ai piani alti che è meglio votare per finta perché altrimenti vincono gli estremisti? Ma nemmeno sotto il controllo degli alleati della Tunisia, garanti solo finché conviene, o di un ordine mondiale che perdona tutte le trasgressioni purché non si metta in discussione la «sicurezza» dei traffici e delle reti strategiche.
Se è vero che la Francia ha rifiutato all’ultimo di dare asilo a Ben Ali, sarebbe l’ennesima prova del «coraggio» dei poteri forti nelle cui mani si presume risiedano le responsabilità maggiori a livello di Europa e Mediterraneo. Sarkozy si è speso in tanti modi per rilanciare l’idea di una collaborazione fra le due sponde del Mare Nostrum dopo il fallimento del Patto di Barcellona. La Germania ha accennato a una smorfia di scontento, l’Italia si è trincerata nella pavidità che la coglie allorché sente di doversi confrontare direttamente con i francesi e l’intero dossier è stato rimesso nel cassetto. L’Unione euro-mediterranea non è andata oltre la figura del mostriciattolo diplomatico. L’impotenza davanti alla crisi della Tunisia (ma sarebbe lo stesso se dovesse precipitare quella pur latente dell’Algeria) è il sigillo d’infamia sul ruolo dell’Europa per lo sviluppo e la pace che anche i nostri ministri ripetono con compunzione e faccia di gesso nelle dichiarazioni alla tv. Naturalmente nessuno sente il bisogno dei famosi «interventi» con bombe e soldati e persino con i sacchi di riso: più semplicemente si vorrebbe che invece di riempire le bocche di retorica la globalizzazione venisse tenuta presente nelle decisioni quotidiane sulle monete, i prezzi, la libertà di circolazione, la cittadinanza, che hanno oggettivamente effetti a largo raggio.
La Tunisia – la sua economia, la società, la politica – è in piena transizione. Non era difficile rendersi conto che Ben Ali non era all’altezza del compito. Il compromesso al ribasso di uno stato che detiene tutto il potere e offre in cambio alla gente il contentino del prezzo politico di qualche bene di prima necessità, confidando per il resto nel turismo, nei servizi, nell’economia informale e in una polizia presente ovunque con o senza divisa, non poteva durare. Paradossalmente, è proprio la politica monetaria a livello internazionale che costringe i paesi del Nord Africa a ridurre il bilancio per le spese sociali. Per il loro bene, si ripete; per smontare il dirigismo e l’improduttività dell’economia sovvenzionata. Magari è anche vero. Ma con quali prospettive in cambio? La stessa valvola di sfogo dell’emigrazione verso l’Europa non è una soluzione sana, perché le società del Sud che così forniscono manodopera a basso costo le economie del Nord si privano di personale qualificato o quanto meno con più iniziativa, ma il suo repentino esaurimento ha aggravato i problemi interni sia della Tunisia che dell’Algeria. La Tunisia ha il vantaggio o lo svantaggio (ma dovrebbe essere un vantaggio) di uno sistema scolastico che sforna personale qualificato di fatto bilingue (arabo e francese) in cerca, spesso vana, di un’occupazione pari alle aspettative, alla formazione raggiunta e alle spese dello stato.
Il risultato di una mezza sommossa popolare, di cui non si conosce il grado effettivo di organizzazione o di strumentalizzazione, si ferma per il momento a un rimpasto al vertice dello stato. Non è nelle possibilità della «piazza» sostituire le arti sottili della politica. Può solo dare una scossa. È nella logica delle cose che siano altri ad approfittarne. È questo l’ultimo scotto che si deve pagare all’autocrazia come sistema. I tunisini hanno ragione di sperare che sia l’ultimo. 57 VITTIME È il bilancio del massacro nel carcere di Monastir, assaltato con trattori e poi incendiato. È l’episodio più sanguionoso della rivolta. Segnalati anche assalti e saccheggi