Guatemala oggi alle urne. Favorito il “generale della pace”
por andrea em domingo, 11 de setembro de 2011 às 8:54
I candidati sono comunque tutti espressione di una destra che, nonostante abbia provocato 36 anni di guerra civile, 200 mila assassinati, 40 mila desaparecidos, si riafaccia sull’arena politica di un paese stremato dalla violenza del crimine e del narcoterrorismo.
CITTA’ DEL GUATEMALA – A volte ritornano. Anche i personaggi più discussi. Con il loro passato pieno di ombre e di sospetti che riaffiorano nel presente. Ma tornano. E possono vincere. Otto Pérez Molina, 60 anni, generale in pensione, il “generale della pace” come ama definirsi in pubblico, leader del Partido Patriota (Pp), oggi potrebbe trionfare al primo turno delle elezioni presidenziali che si tengono qui in Guatemala. Oltre al presidente, al vice, si nominano 158 deputati del Congresso, 333 sindaci e 20 delegati al Congresso Centroamericano.
I dati, confermati da ripetuti sondaggi, dànno per vincente Molina: raccoglie il 51 per cento dei voti e distacca di oltre 20 punti i suoi avversari. Due, in particolare, tra i dieci candidati, cercano di insidiarlo: Manuel Baldizòn, 46 anni, imprenditore, populista di Libertad democratica renovada (Lider) e Eduardo Suger, 54 anni, esponente di Compromiso, Renovaciòn y orden (Creo). Ma non c’è partita; troppo distacco e poi giocano tutti sullo stesso fronte.
Sono espressione di una destra che, nonostante abbia provocato 36 anni di guerra civile, 200 mila assassinati, 40 mila desaparecidos, si riafaccia sull’arena politica di un paese stremato dalla violenza del crimine e del narcoterrorismo. “Abbiamo bisogno di una svolta. Di un uomo forte, di qualcuno che metta ordine in questo caos”, si giustifica Félipe, l’autista del taxi che mi guida in un giro per la città. Lo dice con aria seria,
guardando dritto davanti a sé. Incurante della realtà che ci appare: una marea umana che riempie i marciapiedi con carretti, furgoni, banchi, tende fatte di stracci e con i quali, ogni giorno, improvvisa il commercio della sopravvivenza. Se Otto Pérez Molina dovesse vincere, sarebbe il primo ritorno di un generale, nel paese dominato e distrutto dai generali, dopo 15 anni di pausa con goveni civili. Anche se il suo ritorno non significa automaticamente l’arrivo dell’Esercito.
Félipe vive nel settore 2, uno dei 12 in cui è divisa questa immensa metropoli dove il 52 per cento della popolazione, a maggioranza india Maya, che qui aveva il cuore del suo grande Regno, si arrangia in condizioni di estrema povertà. Il suo quartiere è un agglomerato di case fatte in lamiera aggrappate ai costoni di uno dei canyon che scivolano dall’altipiano di Città del Guatemala verso le vallate solcate da fiumi e circondate dalla foresta. Me lo indica. E, con un sorriso amaro, mi fa notare che a poche centinaia di metri, dietro altre case e botteghe, logore ma in muratura, sorgono i settori 10 e 12, le aeree residenziali, quelle dei ricchi, ornate da grattacieli in vetro e schiere di villette con i giardini curati.
Uscito dall’incubo delle stragi, delle torture, delle scomparse, il Guatemala fatica a conquistarsi spazi di democrazia. Tre decenni di una spietata guerra civile hanno soddisfatto le aspettative delle classi latifondiarie e placato le ossessioni anticomuniste degli Stati uniti ai tempi della Guerra fredda. Ma hanno anche lasciato un vuoto che oggi condiziona il futuro del paese.
La violenza scatenata dall’esercito nel 1954 durante il regime del colonello Carlos Castillo Armas, condannato a morte e poi evaso quattro mesi prima di guidare un colpo di Stato orchestrato dalla Cia, ha provocato l’unico vero genocidio etnico di tutta l’America Latina. Assieme a decine di migliaia di indios, massacrati nei loro villaggi rasi al suolo e incendiati, sono scomparse fisicamente anche quelle intelligence politiche che oggi avrebbero potuto concorrere alle elezioni. Ma non esistono più. Perfino il Premio Nobel per la Pace Rigoberta Manchiù, forse la figura più nota dell’opposizione guatemalteca per le sue denunce sulle atrocità commesse, raccoglie un misero 1 per cento dei consensi. Per avere più forza ha unito sotto il suo nome tutte le sigle della sinistra che nel 1982, per reagire alla violenza dei militari e degli squadroni della morte, formarono fino al 1996 l’Unidad révolucionaria nàcional guatemalteca (Urng), un fronte clandestino armato.
Il presidente uscente, il socialdemocratico Alvaro Còlom, negli ultimi 4 anni ha cercato di avviare timide riforme che puntavano a una distribuzione delle ricchezze create con l’esportazione di caffè e lo sfruttamento di importanti materie prime. Ma è stato contrastato dalla solite poche famiglie che contano e che sono sempre contate in Guatemala.
Se un tempo c’era la United fruit che tramava con la Cia statunitense e si affidava ai militari golpisti, ora sono le industrie minerarie e quelle agroalimentari a decidere il destino di una nazione. Con una novità importante che si è inserita nello scacchiere politico: il narcotraffico. I Cartelli della droga, soprattutto “Los Zetas” messicani, hanno creato le loro basi in Guatemala. Perché è più facile riciclare l’immenso tesoro che accumulano ogni giorno e possono gestire con tranquillità, grazie alla corruzione imperante, il traffico verso i ricchi clienti del Nord America.
In città non si nota lo spaccio, di fatto non esiste. Il mercato, quello vero, è altrove, all’estero. Qui è tutto più soffuso, come il fiume di denaro che scorre nelle solite mani, ma carico di violenza. Si spara e si uccide con una facilità impressionante. Non c’è guatemalteco che non abbia avuto un furto, un’aggressione. “Al semaforo ti bussano sul vetro della macchina con la canna della pistola e ti svuotano le tasche”, spiega con rassegnata ironia il cameriere di un caffè del centro. I racconti e gli aneddoti si sprecano. C’è chi ha subito rapine camminando poche centinaia di metri; chi si è trovato minacciato dai banditi, mischiati tra i passeggeri, mentre viaggiava sui taxi collettivi verso i villaggi dell’interno. Trenta candidati locali sono stati fatti fuori. Il capo dell’Osa, l’Organizzazione degli Stati americani José Miguel Insulza, ha espresso grande preoccupazione. Si temono atti di violenza, nonostante la presenza sul territorio di 24 mila agenti, il 33 per cento in più delle ultime elezioni.
Le cronache raccontano di un avvocato che ha pronosticato la sua morte. Nel video che ha girato accusava il presidente nel caso fosse stato ucciso. E’ stato freddato pochi giorni dopo. Quel video, come un testamento postumo, ha avuto la forza di una denuncia che ha fatto discutere per settimane i socialnetwork. Molti hanno parlato di provocazione, di ricatti, hanno sostenuto che l’avvocato fosse solo un folle che cercava notorietà. Ma la morte di Facundo Càbral, noto cantante argentino, non è una leggenda. Un paio di settimane fa era venuto in Guatemala per promuovere il suo ultimo disco e fare un po’ di beneficienza. E’ stato colpito da una raffica di proiettili mentre si dirigeva all’aeoroporto. Non era lui l’obiettivo ma chi lo accompagnava: aveva dei conti in sospeso.
Le statistiche sono agghiaccianti: 16 omicidi al giorno, 60 per cento dei quali attribuiti alla malavita organizzata, per il 98 per cento rimasti impuniti. Solo nel 2010 sono state ammazzate 5960 persone. Su una popolazione di 14 milioni significa che ogni 100 mila abitanti, 41,5 persone vengono assassinate. Si spara per nulla. Un gesto sbagliato, una reazione impulsiva. Basta anche solo trovarsi nel mezzo di una sparatoria improvvisa. “La responsabilà”, concordano tutti, “è del narcotraffico”.
Eppure l’ex generale Pérez Molina ha perso le scorse presidenziali proprio perché aveva puntato tutta la sua campagna sulla violenza e la lotta alla criminalità. Battuto al ballottaggio da Ivaro Colòm, questa volta ha evitato di far leva sulla paura; ha promesso l’aumento del salario minimo, ora fissato a 304 dollari, e una riforma del fisco su cui insistono molto i consiglieri americani per rafforzare l’economia.
Dai file di wikiLeaks messi in rete dal gruppo di Assange si scopre quanto sia ancora presente e decisiva l’influenza statunitense. Gli interessi Usa in Guatemala restano importanti; questo è un paese che offre la più ampia e forte economia di tutto il Centroamerica: il Pil è di 20 mila milioni di dollari. Molina punta a innalzarlo di un punto: dal 4 al 5 per cento. Nei dialoghi con l’ambasciatore Usa, poi cablati a Washington, si apprende che l’ex generale aveva timore del suo passato. Era convinto che l’ex first lady e moglie del presidente Còlom, anche lei candidata ma con poche possibilità di successo, tramasse per tirare fuori delle prove compromettenti. Le ripetute denunce che indicano l’ex generale come corresponsabile di tantissime stragi, quando era capitano e poi maggiore dell’esercito, sempre operativo sul campo, non hanno però sortito alcun effetto.
Il candidato favorito nega ogni suo coinvolgimento nelle mattanze e nei raid criminali contro le popolazioni indigene Maya. Si considera, al contrario, l’autore dell’accordo, mediato dall’Onu, con l’opposizione armata nel 1996 quando era capo di Stato maggiore. “La firma su quel foglio l’ho messa io”, replica indignato davanti ai video e alle dichiarazioni dell’epoca che lo accusano. “E poi il paese ha bisogno di voltare pagina. Io sono il generale della pace”. Quando i colleghi guatemaltechi gli hanno chiesto come fosse riuscito a usare oltre un milione di dollari per la campagna elettorale, violando apertamente la legge che stabilisce un tetto di 125 dollari nelle spese, ha parlato di “donazioni spontanee”. Nessuno lo dice, ma è facile immaginare da parte di chi.