Pubblicazione dell’Associazione per l’Interscambio Culturale Italia Brasile Anita e Giuseppe Garibaldi

DA DOVE VIENE il linguaggio

por andrea em sábado, 15 de janeiro de 2011 às 15:21

 

Superata una certa soglia dell’evoluzione, è la crescente complessità delle strutture cognitive a far sì che la nostra mente sia pronta per elaborare gli strumenti simbolici, oppure è l’uso del linguaggio a plasmarla, potenziandone le capacità? Questa la cornice in cui si iscrive l’ultimo libro di Francesco Ferretti Alle origini del linguaggio umano, uscito da Laterza, secondo cui la facoltà di parola è una conseguenza dell’adattamento biologico
L’essere umano è un animale. Tutti gli animali evolvono secondo i principi della selezione naturale. Dunque, a meno di non contestare queste premesse, la conseguenza è obbligata: l’essere umano evolve secondo i principi della selezione naturale. Eppure qualcosa ci trattiene dal formulare una simile conclusione. Mentre non esitiamo ad ammettere che, al pari della proboscide dell’elefante e del collo della giraffa, l’attuale configurazione del corpo umano sia l’esito provvisorio di un processo evolutivo lento e graduale, l’organo di cui andiamo più fieri – il cervello, s’intende – ci sembra appartenere a una serie diversa. È nel cervello/mente che risiedono le nostre facoltà specie specifiche: la presunta razionalità, la rappresentazione, il pensiero simbolico e, soprattutto (o forse all’origine di tutto), il linguaggio. Difficile accettare che tali facoltà altamente complesse derivino da abilità più semplici già presenti in altre specie. Quale altro animale è anche solo lontanamente capace di concepire entità inesistenti o astratte, di affrancare i pensieri dal qui e ora, di rappresentare se stesso mentre compie queste operazioni, e di elaborare e usare sistemi di simboli discreti (come le parole del linguaggio e i simboli della scrittura) i quali, oltre a essere sganciati da qualsiasi rapporto necessario con i propri referenti, possono essere combinati ricorsivamente per generare un’infinità di possibili sintagmi? Tanto più che un’illustre tradizione filosofica (da Cartesio a Chomsky) ci ha presentato l’homo sapiens come una specie «unicamente unica», incommensurabilmente diversa, staccata dal resto del mondo animale proprio in virtù delle sue funzioni psichiche superiori.
Con Darwin contro Cartesio
In aperta polemica con la tradizione cartesiana, Francesco Ferretti ritiene, tra le pagine del suo ultimo libro Alle origini del linguaggio umano (Laterza 2010), che le capacità verbali umane siano una forma di adattamento biologico dovuto alla selezione naturale (una tesi discussa anche nel suo articolo uscito sul manifesto del 7 gennaio scorso). Coloro che, al contrario, prediligono l’ipotesi secondo cui 50.000 anni fa una specie di ominidi avrebbe ricevuto in un solo colpo il dono del linguaggio, con tutte le abilità correlate, sono a suo avviso fuorviati da orgoglio antropocentrico. È come se l’elefante rivendicasse uno statuto speciale nel mondo della natura in virtù dell’unicità del suo lungo naso (l’esempio è di Steven Pinker). Alla presunzione di far parte di una specie più speciale delle altre si aggiunge la difficoltà di rendere conto dell’apparizione improvvisa (anziché lenta e graduale) di un dispositivo sofisticato come quello linguistico.
A meno di non postulare l’intervento di un progettista divino, intenzionato a equipaggiare sin dalle origini la specie umana di un organo linguistico bell’e pronto, non resta che l’evoluzionismo per spiegare come la facoltà di linguaggio si sia insediata nel nostro hardware cognitivo; di teorie alternative al momento non disponiamo. Ma allora non si scappa: come la proboscide dell’elefante, il linguaggio si è formato attraverso una serie di modificazioni numerose, successive e lievi sotto la spinta della selezione naturale.
Problema: secondo Chomsky, la facoltà di linguaggio è innata e universale, come dimostrerebbe la facilità con cui i bambini imparano ad applicare la grammatica di qualsiasi lingua con un minimo input ambientale. È possibile conciliare il modello della Grammatica Universale, a tutt’oggi il più elegante sul mercato, con il quadro evoluzionistico? Lo è solo a condizione di rinunciare a due assunti cari agli innatisti duri e puri, dice Ferretti. Uno, che la facoltà di linguaggio compaia ex abrupto nella filogenesi umana (in antitesi al «gradualismo» degli evoluzionisti); due, che vi sia uno scarto qualitativo netto tra il linguaggio umano e la comunicazione animale, ossia che il primo non abbia nulla a che vedere con la seconda (in opposizione al «continuismo» degli evoluzionisti). Su entrambi i punti Chomsky non deflette e, per usare lo slogan con cui Ferretti ne riassume la posizione, «se la Grammatica Universale è incompatibile con l’evoluzione, tanto peggio per l’evoluzione».
Più conciliante la posizione esposta da Steven Pinker e Paul Bloom in Linguaggio e selezione darwiniana (Armando 2010), disposti a trattare sul gradualismo: se il linguaggio è una facoltà per noi innata, ciò non significa che sia rimasta immutata dai tempi dei nostri remoti antenati. Si può ammettere che l’attuale struttura del linguaggio si sia sviluppata a partire da strutture più semplici: alcune forme di comunicazione umana, come il pidgin e la lingua dei bambini, attestano l’esistenza di grammatiche di complessità intermedia, con buona pace di coloro che definiscono il linguaggio come un sistema irriducibilmente complesso, operante secondo un meccanismo del tipo tutto-o-niente. E tuttavia secondo Pinker e Bloom nulla ci autorizza a postulare una continuità evolutiva tra il linguaggio umano e i sistemi comunicativi degli altri animali (incluse le scimmie antropomorfe), sprovvisti di quella sintassi profonda che contraddistingue la nostra Grammatica Universale. Ma allora, se si negano i legami con altre forme più rudimentali di comunicazione animale, su quali argomenti si deve fare leva per spiegare l’origine del linguaggio? Da quale substrato sarebbe scaturita, sia pure un po’ alla volta e per effetto delle spinte della selezione naturale, una facoltà linguistica che prima non c’era?
Arrivati a questo punto del ragionamento, c’è chi si smarca dalla linguistica chomskiana. Le teorie neoculturaliste che oggi si contrappongono all’innatismo linguistico – Ferretti cita Michael Tomasello e il suo Le origini della comunicazione umana (Cortina, 2009) – intendono il linguaggio come una struttura esterna al cervello, un artefatto culturale acquisito da ciascun individuo per via di apprendimento. Il bambino disporrebbe, sì, di facoltà cognitive innate (sebbene nessuna di esse sia specificamente deputata al linguaggio) e, a partire da esse, acquisirebbe le strutture linguistiche che ricava dalle sollecitazioni ambientali. Spetterà alle strutture linguistiche di adattarsi alle facoltà cognitive del bambino, in modo da passare attraverso il «collo della bottiglia» dell’apprendimento. Un linguaggio le cui strutture non si adattassero bene alle preesistenti strutture cognitive stenterebbe a trasmettersi di generazione in generazione e finirebbe così per estinguersi. I termini della questione vengono perciò ribaltati: non sarebbe il cervello a essersi adattato al linguaggio nel corso dei millenni ma, viceversa, sarebbe il linguaggio ad adattarsi ai cervelli di coloro ne fanno uso. All’evoluzione naturale delle facoltà linguistiche si sostituisce l’evoluzione culturale degli artefatti simbolici.
Secondo il modello neoculturalista, non vi sarebbe bisogno di postulare l’esistenza di moduli innati specifici per il linguaggio, in quanto quest’ultimo sfrutterebbe i sistemi cognitivi adattati (per via di selezione naturale) per altri scopi evolutivi, così come il piumaggio degli uccelli inizialmente non è stato selezionato per il volo (bensì per la termoregolazione), e solo successivamente è stato sfruttato per assolvere la funzione del volo. Analogamente, il linguaggio avrebbe attinto a sistemi cognitivi selezionati per altre finalità (percettive, per esempio), e li avrebbe messi opportunisticamente al servizio delle funzioni cognitive e comunicative che esso (linguaggio) persegue. Tutto a posto, dunque? Purtroppo no.
Il guaio con la soluzione culturalista è che essa presuppone un linguaggio già maturo e operativo, in grado di approfittare delle possibilità offerte dall’equipaggiamento cognitivo del vecchio homo sapiens per attivare i meccanismi dell’evoluzione culturale. Ma da dove emerge il linguaggio, ovvero gli artefatti culturali che lo sostanziano, se non dalle strutture cognitive stesse le quali, a un certo punto del suo cammino filogenetico, consentono all’animale umano di varcare la soglia del pensiero simbolico (astratto, ricorsivo e metarappresentativo)? Per i neoculturalisti il linguaggio poggia sul pensiero simbolico e il pensiero simbolico poggia sul linguaggio: l’uovo e la gallina, insomma. Di qui l’accusa a loro rivolta di considerare il sistema simbolico come un «gancio appeso al cielo».
Né dentro né fuori dal cervello
La domanda resta inevasa: è la crescente complessità delle strutture cognitive a far sì che, superata una certa soglia evolutiva, la mente umana sia pronta per elaborare gli strumenti simbolici, oppure è l’uso del linguaggio a plasmare la mente, potenziandone a dismisura alcune capacità cognitive? Si direbbe che i due processi si alimentino a vicenda, e difatti diversi autori ne parlano in termini di co-evoluzione, un concetto sviluppato in particolare da Terrence Deacon in The Symbolic Species (Norton & Company 1997), secondo il quale «l’evoluzione del linguaggio non è avvenuta né dentro, né al di fuori del cervello, ma nell’interfaccia in cui i processi evolutivi della cultura influiscono sui processi evolutivi biologici». Semplificando in maniera brutale, la nicchia ambientale in cui si sarebbero riprodotti i nostri remotissimi antenati, sospinti dalla necessità di intensificare gli scambi con i propri simili, avrebbe favorito lo sviluppo di facoltà comunicative sempre più articolate. Facoltà che a loro volta avrebbero incoraggiato l’evoluzione di sistemi simbolici via via più sofisticati, utili per comunicare con gli altri in modo flessibile ed efficiente. Al contempo, le pressioni sociali e ambientali avrebbero sollecitato un meccanismo adattivo (stimolato dall’uso stesso dei sistemi simbolici, entrati a far parte di quell’ambiente) per effetto del quale le strutture mentali si sarebbero specializzate in senso simbolico, provocando – ed essendo provocate da – una ristrutturazione del cervello e un nuovo modo di percepire, rappresentare e interagire con il mondo. Mondo la cui configurazione viene costantemente intaccata dall’azione degli umani, da sempre intenti a manipolare l’ambiente in cui si muovono allo scopo di piegarlo alle proprie esigenze.
Per rozza analogia con il rapporto di condizionamento reciproco che lega l’artefatto linguistico al cervello, Alessandro Zijno suggerisce di pensare al rapporto tra il labbro di Louis Armstrong e il bocchino della sua tromba. Da una parte il labbro si è progressivamente modellato sulla forma del bocchino, deformandosi; ma dall’altra è presumibile che Armstrong abbia selezionato bocchini che assecondassero la forma del suo labbro. In un improbabile mondo in cui la sopravvivenza della specie fosse esclusivamente legata alla performance musicale, la creazione di una nicchia culturale corredata di trombe «alla Louis Armstrong» favorirebbe, alla lunga, la proliferazione di individui naturalmente dotati della protuberanza labiale richiesta dall’uso di quel particolare tipo di strumento. Così per il linguaggio: in una nicchia ambientale che mette a disposizione di chi la abita un abbozzo di strumento linguistico, con tutti i vantaggi adattivi che esso comporta (interpretare le intenzioni altrui, costruire spazi di azione comune, eccetera), gli individui equipaggiati di un hardware cognitivo predisposto al pensiero simbolico hanno più possibilità degli altri di perpetuarsi.
In cosa consiste questo hardware cognitivo che ci permette di pensare linguisticamente? Come si è formato? A partire da quali altri programmi? Qual è stata la scintilla – o la tempesta di scintille – che ha consentito il passaggio dalle facoltà comunicative che condividiamo con gli altri animali all’uso dei simboli? Cosa succede quando il primo «mutante grammaticale» svincola le sue emissioni espressive (gestuali o vocali che siano), o i suoi pensieri, dalla situazione enunciativa contingente, per esempio per riferirsi a un evento che gli è capitato il giorno prima? Se, come sostiene Ferretti, «le cose più interessanti da raccontare riguardano ciò che avviene prima e, più precisamente, durante l’avvento del simbolo», il racconto delle origini resta (per ora) al di là della nostra portata. Il che, manco a dirlo, lo rende immensamente avvincente.

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