Avanza il partito di Tremonti
por andrea em domingo, 30 de janeiro de 2011 às 11:44
Per la prima volta dall’inizio della legislatura, sottovoce e chiedendo l’anonimato, anche i parlamentari del centrodestra iniziano a ragionare sull’ipotesi di mollare un premier che rischia di portarli tutti nell’abisso. E allora si guarda al ministro dell’Economia, per un governo d’emergenza aperto al centro e al Pd
Giulio TremontiVorrebbe rendersi invisibile, evitare gli schizzi di fango, attraversare la tempesta e lasciarsi cadere addosso, eventualmente, il ruolo di salvatore della patria. Sono i giorni decisivi per la legislatura (“No, sono i giorni decisivi per il futuro del centrodestra guidato dal Cavaliere”, corregge un sottosegretario).
E mentre Silvio Berlusconi invade in voce e in spirito i palinsesti, le donne del Pdl occupano e abbandonano gli studi televisivi per difenderlo dai festini di Arcore e su Gianfranco Fini torna ad abbattersi lo spettro della casa di Montecarlo, lui, il protagonista occulto della crisi, preferisce eclissarsi. Giulio Tremonti assomiglia sempre di più al Divo Giulio della Prima Repubblica. Anche Andreotti faceva così, avanzava a passettini leggeri verso il potere, te lo ritrovavi nella posizione più favorevole quando meno te lo aspettavi, con un partito trasversale che lavorava per lui.
Così, anche oggi, il Partito Tremonti è all’opera ma non si vede. Appena un endorsement di peso in tv, quello di Emma Marcegaglia nel salotto di Fabio Fazio. “Occorre verificare se questo governo è in grado di andare avanti e fare le riforme, altrimenti bisogna fare altre scelte”, ha dettato la presidente di Confindustria: “Un nuovo primo ministro deve avere la maggioranza in Parlamento e deve essere indicato dagli elettori: se ci saranno le condizioni perché Tremonti abbia queste caratteristiche, perché no?”. Ma il fronte del cambio, il ministro dell’Economia al posto del Cavaliere furioso, si allarga di giorno in giorno. Fuori e dentro il Parlamento, anche nel Pdl che ufficialmente marcia compatto in difesa di Berlusconi: “La politica non c’entra più nulla, è roba da medici. Non capisco cosa stiamo aspettando a fare qualcosa”, si è sfogato l’altro giorno nel cortile di Montecitorio il presidente di un’importante commissione parlamentare, forzista della prima ora.
Che la partita sia delicata lo dimostra la riservatezza dell’inquilino di via XX Settembre. Da quando è cominciato il caso Ruby, Tremonti non ha proferito parola in soccorso del premier, né d’altra parte il ministro dell’Economia è Iva Zanicchi, a cui Berlusconi può ordinare cosa dire: solo un’uscita di rito, per dichiarare che nei vertici internazionali si sente onorato di far parte di questo governo, e ci mancherebbe. Più calorosa la serata in una sala della Provincia di Roma: di fronte a una platea tutta di sinistra, una lunga dissertazione sui discorsi di Enrico Berlinguer che vale più di un indizio.
Per il tema scelto: l’austerità invocata dal segretario del Pci nel 1977, valore di certo poco masticato alle cene di Arcore e più vicino alla “sobrietà” consigliata al premier dal presidente della Cei Angelo Bagnasco. Per la cornice storica in cui si collocava quell’appello: i governi di solidarietà nazionale con il più grande partito della sinistra nella maggioranza in un governo presieduto, guarda un po’, da Andreotti. E soprattutto per il significato che Tremonti attribuisce oggi a quell’esperienza: “Sulla crisi non banale di un sistema bisogna costruire una nuova architettura”, teorizza il ministro dell’Economia: “Berlinguer chiedeva una nuova etica per la politica, ma negli anni Ottanta il risultato fu il centralismo delle decisioni, con il debito pubblico che lievitò senza controllo: fu la concentrazione del potere politico al centro a provocare la meccanica del debito e la sua degenerazione clientelare. Oggi riprendere il progetto dell’austerità significa fare il federalismo”.
Berlinguer profeta del leghismo bossiano? Tremonti adora gli accostamenti spericolati, ma questa volta non si tratta di una provocazione puramente intellettuale. Perché è sul federalismo, e non sulle intercettazioni di Nicole Minetti e Lele Mora, che la legislatura rischia di deragliare, come ha confidato agli esponenti dell’opposizione un preoccupatissimo Gianni Letta. Ed è sul federalismo che la Lega ha avviato la trattativa con il Pd, nella persona del presidente dell’Anci Sergio Chiamparino. Proprio lui, il sindaco di Torino, nato e cresciuto nel Pci di Berlinguer, è stato il più ruvido nell’avanzare l’ipotesi del grande scambio: “La Lega molli Silvio e noi votiamo il federalismo. Serve un governo di emergenza nazionale per uscire da una situazione degradata, finalizzato a una riforma molto importante”. Inutile aggiungere chi sarebbe il candidato numero uno a presiedere questo governo: con il ministro dell’Economia le telefonate di Chiamparino sono quotidiane. È lui il protagonista vero della trattativa che precede il voto sul federalismo della prossima settimana. È lui che mette la firma sull’impresa: “Il federalismo è un processo storico, non un salto nel vuoto ma un passaggio all’Europa”. E Berlusconi lo sa. Nella Lega già si preparano alla fase successiva: “Se chiudiamo con l’Anci, il Pd e il Terzo Polo saranno obbligati a far passare il federalismo nella commissione bicamerale. E a quel punto avremo una carta in più per andare dall’Ometto a fargli un bel discorso”, spiegano nel Carroccio. Un discorso che più o meno suona così: non si possono fare il federalismo e le altre riforme a colpi di maggioranza, con tre o quattro voti di scarto in Parlamento e mezzo Paese contro. E Berlusconi non può pensare di dividere ancora una volta gli italiani pro o contro la sua personale crociata contro i giudici.
Solo Umberto Bossi può andare dall’Ometto di Arcore a snocciolare queste scomode verità, praticamente un avviso di sfratto, manco Silvio fosse una ragazza dell’Olgettina. Fino a un mese fa era uno scenario altamente improbabile: l’asse Berlusconi-Bossi era considerato la stella polare di tutta la politica italiana, l’unica maggioranza possibile in questa legislatura. In queste settimane, però, la Lega si è rimessa in movimento. Effetto Ruby, certo: l’insofferenza crescente dei militanti verso le cattive abitudini dell’alleato del Pdl arriva ai piani alti del partito di via Bellerio.
Nell’ultimo fine settimana di comizi e raduni territoriali big e peones hanno potuto toccarla con mano. E i sondaggi, per la prima volta da molti mesi, registrano un arretramento della Lega, sotto il 10 per cento. Più di tutto c’è il Senatur che fiuta la fine di una fase e si candida a essere il regista della nuova stagione, con lo spirito animale di sempre. “L’altro giorno mi ha chiamato e mi ha strapazzato, come faceva un tempo”, ha raccontato ai colleghi la deputata Manuela Dal Lago: “Buon segno: vuol dire che Umberto si prepara alla battaglia”.
La battaglia, fino ad ora, prevedeva elezioni anticipate in caso di bocciatura del federalismo e un governo di grande coalizione presieduto da Tremonti dopo il voto. Ma l’agenda potrebbe cambiare: se la situazione precipita sotto la spinta di novità giudiziarie, in una situazione traballante sul piano economico (la ripresa che non c’è certificata dal Fondo monetario internazionale) e con i venti di guerra nel Mediterraneo, dall’Albania all’Egitto, il fronte del sì a un federalismo rivisto e corretto che comprende Lega, Pd e Terzo polo potrebbe trasformarsi nel perno di un nuovo governo di emergenza. E in quel caso Tremonti entrerebbe in scena subito, in questa legislatura.
Tra i deputati della Lega, vista l’aria che tira, qualcuno in vena di ricostuzioni storiche ha riesumato le cronache dei giornali dell’annata 1994-95, quando Bossi fece il ribaltone, il patto delle sardine con Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione, e appoggiò il governo Dini.
Ci sono ragioni internazionali che spingono in questa direzione: l’Italia instabile e di nuovo senza governo è l’ultima cosa che si augurano le cancellerie europee dove Tremonti è di casa, con le rivolte nei paesi dell’Islam moderato alle porte. E il Partito Tremonti trova il suo punto di forza tra gli attori che in questi giorni si sono affacciati per suggerire un cambio di marcia. La Confindustria della Marcegaglia, certo: nonostante una telefonata di chiarimento tra la presidente di viale dell’Astronomia e Berlusconi i rapporti sono al livello più basso, troppi ormai gli incidenti e le incomprensioni negli ultimi sei mesi.
La Segreteria di Stato vaticana e la Conferenza episcopale seguono con partecipazione le mosse del ministro dell’Economia, che ha scavalcato perfino Gianni Letta in familiarità con le Sacre Stanze. La Chiesa ritorna a un ruolo di supplenza della politica, come già avvenuto in altre fasi della storia recente, nell’immediato dopoguerra o durante la tempesta di Tangentopoli, con il papa chiamato a intervenire in prima persona: il testo della prolusione del cardinale Bagnasco di fronte al parlamentino della Cei è stato letto e concordato parola per parola con Benedetto XVI in un lungo incontro. La Chiesa non si schiera nello scontro di questi giorni tra il premier e la procura di Milano, d’accordo, ma i toni usati nei confronti del ventennio berlusconiano sono di inedita durezza: “Disastro antropologico”, ha scandito Bagnasco. Si lavora al dopo. E il dopo ha sempre più le sembianze del ministro della Valtellina.
Amici, potenziali alleati e nemici. Ci sono anche loro, già, in questa stagione di sospetti e di veleni: la guardia scelta del Cavaliere-Caimano ormai deciso allo scontro finale, all’appello alle armi in cui la tiepidezza non sarà più consentita. Il momento delle scelte è arrivato, anche per il Divo Giulio.