Uccidere Gheddafi l’unica speranza degli umanitari
por andrea em domingo, 20 de março de 2011 às 13:01
Qual è la differenza fra la Libia, lo Yemen e il Bahrein (e mettiamoci pure l’Egitto cone le centinaia di morti della sua rivolta)? Qual è il peso specifico dei morti ammazzati – «popolazione civile» – in Libia, Yemen, Bahrein ed Egitto? Cosa sono, e per chi valgono, i «valori universali» a cui il buon Obama – una vittima del suo paese, se vogliamo dargli un credito – si è richiamato quando ha dovuto, a malincuore, dare il suo appoggio alle protesta in Egitto e mollare il fedele Mubarak?
In Libia si è arrivati dove si voleva arrivare fin dall’inizio. All’«interventismo umanitario», alla «guerra umanitaria». E «all’imperialismo umanitario» (e petrolifero).
Tutte categorie che valgono per il satrapro Gheddafi – che dopo più di 40 al potere se ne doveva andare prima, anche se non tutto quello che ha fatto in questi 40 anni è stato, come si dice adesso, malvagio -, non valgono per altri satrapi. Per lo yemenita Ali Abdullah Saleh, per gli al-Khalifa, gli sceicchi o emiri o come diavolo si chiamino padroni del Bahrein. Saleh è da più di 30 anni al potere, spara sui manifestanti «pacifici» , ma lo Yemen è troppo «cruciale» per la guerra degli Stati uniti a al-Qaeda per poterlo mandare a mare sull’onda dei «valori universali». E il Bahrein, una fragile intercapedine fra l’Arabia saudita, filo-americana e iper-isalimista (l’unico stato con gli Emirati arabi uniti, altro «soccorritore fraterno» del Bahrein, ad avere riconosciuto il regime dei taleban in Afghanistan), che è la sede della quinta flotta Usa, a poche decine di chilometri dal diavolo sciita iraniano. Per cui qualche decina di morti sulla piazza della Perla di Manama o nel centro di Sanaa ci possono stare, morti per l’umanitarismo. E anche la richiesta di un «aiuto fraterno» ai sauditi e al Consiglio di cooperazione del Golfo, gli stessi che hanno chiesto – insieme alla Lega araba e alla Organizzazione della congerenza islamica – l’imposizione di una no-fly zone sulla Libia e la concessione, quale si evince dalla risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza, di «tutti i mezzi» necessari (che la Francia ha già iniziato a usare) per «proteggere i civili» della Libia, alle cui sorti sono in tutta evidenza, petro-sceicchi e occidentali, molto sensibili. Chiedere un aiuto fraterno rientra nel diritto di ogni stato, ha rassicurato la signora Clinton. Ma quando a chiederlo (all’Urss) erano i governi (real)comunisti dell’Ungheria o della Cecoslovacchia la si chiamava invasione (e non solo da destra).
Ora tocca alla Libia. Gheddafi – come Mubarak e Ben Ali – è stato travolto dall’onda della rivolta, e se ne deva andare. E’ buono che se ne vada, più di 40 anni al potere sono troppi per chiunque. Ma – il vecchio e sempre valido doppio standard – è inaccettabile che a ergersi a maestri di democrazia e a scatenare la «guerra umanitaria» siano gente come Sarkozy e Cameron, come lo stesso Obama (o se vogliamo vedere la sua faccia meno simpatica, Hillary Clinton) e i Saud dell’Arabia saudita.
Per non parlare dell’Italia. L’Italia, quella del presidente Napolitano e quella dell’impresentabile governo Berlusconi o di Benito La Russa che sbava per riconquistare la quarta sponda. E neanche quella della pseudo-sinistra di Bersani (che auspica «un ruolo attivo» nell’attacco) o di D’Alema (a cui non è bastato l’intervento umanitario contro la Serbia e il Kosovo).
1911-2011, cento anni dopo siamo di nuovo lì, in Libia. Solo questo centenario dovrebbe spingere qualsiasi governo o politico italiano dotato di un minimo di memoria e di decenza a chiamarsi fuori: tutti possono attaccare la Libia – di Gheddafi o chiunque altro – per ragioni «umanitarie» o più prosaicamente petrolifere, eccetto l’Italia. L’Italia dovrebbe chiamarsi fuori.
L’unica speranza, ora, per gli umanitari è di far fuori Gheddafi al più presto e al primo colpo.. Perché se no sarà un grande casino. E questa volta alle porte di casa.